Recensione: "Trilogia della città di K." di Agota Kristof


 

Ieri ho finito di leggere la tanto acclamata “Trilogia della città di K.” di Agota Kristof.

Avevo letto praticamente solo pareri positivi, chi parlava di capolavoro, chi la descriveva come traumatica e crudele, quindi mi ci sono buttata a pesce.

In realtà l’ho trovato un romanzo deludente e scarso, e ora vi spiego perché.

 

Attenzione: la recensione contiene spoiler della trama.

 

La prima parte, “Il grande quaderno”, non è neanche male, è raccontata in prima persona plurale da due gemelli che sembrano non avere identità propria.
Qui è abbastanza chiaro cosa cerchi di fare l’autrice. Usando uno stile gelido e chirurgico, costruito solo su frasi brevi separate da continui punti fermi, cosa che dopo un tot diventa abbastanza snervante, sta mettendo il lettore nella condizione dei due bambini, che vivono gli avvenimenti con un distacco da psicopatici, cosa che può anche essere un punto di interesse. La narrazione infila un’atrocità dietro l’altra con estrema naturalezza, il che forse spiega perché qualcuno ne sia rimasto sconvolto. Il problema è che così facendo toglie a tutti quegli eventi gran parte della loro potenza evocativa. Se lo scopo è quello di mostrare gli orrori della guerra, lo scopo è fallito. Li leggi in modo annoiato, alla fine te ne frega sì e anche no. Se invece lo scopo è quello di anestetizzare il lettore per farlo riflettere sulla banalità del male, direi che invece è stato raggiunto.

 

La seconda parte, “La prova”, è invece raccontata dal punto di vista di uno solo dei gemelli, dopo che l’altro, così, de botto, senza senso, decide di attraversare il confine.

Questa parte è abbastanza tradizionale, fatto salvo per lo stile narrativo, simile a quello della prima parte, che se ne sbatte di dare un qualsiasi approfondimento psicologico ai personaggi. Leggiamo una serie di azioni, nient’altro. Noia, dopo un po’. Noia mortale.

Già nella prima parte l’ambientazione era confusa, qui la confusione aumenta. Non sappiamo dove si svolga la storia, di quale guerra si stia parlando, chi siano i soldati che ogni tanto compaiono in città. Ok, descrizione “universale” perché non è importante dove si svolgano i fatti, la guerra è sempre guerra? Posso anche accettarlo.

 

Se il romanzo fosse finito con la seconda parte, la mia recensione sarebbe stata tutto sommato positiva. Il problema è che prosegue. “La terza menzogna”, sezione finale, diventa un delirio in cui non si capisce più una mazza. Salta fuori che la storia che abbiamo letto finora era una puttanata inventata di sana pianta da uno dei personaggi, ma non è nemmeno quello che mi ha fatto cascare le palle. Il lettore si trova di fronte a uno sbrodolamento metanarrativo elaborato malissimo, in cui non si capisce più chi sia lo scrittore, perché scriva, quale personaggio esista e quale no, chi sia chi, visto che i nomi sono sempre gli stessi due (Lucas e Klaus/Claus) riarrangiati in modo diverso.

Qui finalmente troviamo un po’ di introspezione, ma questa scelta non riesce a farci empatizzare con i narratori, riesce solo a trasformare l’intera sezione in un noioso monologo raccontato da qualcuno della cui vita ce ne fotte più o meno come del due di picche quando la mano è cuori.

Le sequenze non seguono né un ordine logico né cronologico, al punto che sì, alla fine si capisce più o meno cosa sia successo, ma questo richiede uno sforzo che non viene ricompensato da un’effettiva soddisfazione dei quesiti che ci siamo posti mentre leggevamo. E questa a mio avviso non è una precisa scelta dell’autrice, denota semplicemente una scarsa capacità nel gestire l’impianto metanarrativo.

In conclusione, direi che lo spirito del romanzo è riassunto perfettamente dalle parole di uno dei personaggi:

“Non è necessario studiare per diventare scrittore. È appena necessario saper scrivere senza troppi errori.”

Ça va sans dire, la ritengo un’immane cazzata. 

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